Codice Rosso. La ratio della normativa e la sua applicazione

Cos’è il Codice Rosso?

La normativa introdotta nel 2019 - con la legge 69/2019 -, denominata “Codice Rosso”, rappresenta, sebbene con talune riserve, l’approdo virtuoso della produzione normativa che il nostro ordinamento ha negli ultimi anni dedicato al contrasto della violenza domestica e di genere; il cui scopo finalmente non è più solo quello di punire l’uomo che agisce la violenza, ma di proteggere e supportare la donna vittima di quella violenza, garantendole diritti e tutele già nelle fasi iniziali del percorso di affrancamento e dunque giudiziario, attraverso una rapida valutazione del rischio, della gravità e reiterazione degli episodi di violenza subiti riconducibili ai reati di maltrattamenti, violenza sessuale, stalking.

Un sistema che ha riformato la trattazione giudiziaria della violenza contro le donne, incidendo sulle tempistiche dell’azione penale e delle indagini, potenziando gli strumenti normativi e processuali di tutela alla donna, anche in relazione al sistema trattamentale degli offender, ossia degli uomini autori di violenza.

Dunque una normativa che attraverso il potenziamento dell’intervento processuale e operativo ha inteso potenziare la risposta giudiziaria alla denuncia.

Un estratto di alcune mie considerazioni sul Codice Rosso già da me condivise e pubblicate all’indomani della introduzione della normativa.

“Altrimenti conosciuta come “Codice Rosso”, è entrata in vigore lo scorso 9 agosto la legge 69/19, determinante, in materia di contrasto alla violenza nei confronti delle donne, numerose modifiche al codice penale, al codice di rito e ad altre disposizioni, finalizzate, come invero esplicita il titolo, alla tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.

La gergale attribuzione alla normativa licenziata del più alto codice di priorità impiegato nei protocolli sanitari, se da un lato ne esplicita e richiama la (condivisibile) ratio - ossia l’esigenza che eventualiritardi nell’acquisizione e nell’iscrizione della notizia di reato o nello svolgimento delle indagini preliminari possano pregiudicare la tempestività di interventi cautelari o di prevenzione, a tutela della vittima (…)” - dall’altra rivela l’approccio ancora una volta emergenziale del legislatore italiano nella trattazione della violenza sulle donne ed endo-familiare, che tradisce l’esigenza, pure sostenuta dalla normativa convenzionale, di adottare, al contrario, misure in linea con il riconoscimento della natura strutturale/culturale della violenza di genere.

La legge 69/19 non solo quindi disattende le “sollecitazioni” internazionali già volte a sostenere - e in certi casi a raccomandare - la trattazione integrata, globale e coordinata della violenza di genere (in tal senso, le disposizioni contenute nella Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa (11.05.2011), ratificata dall’Italia con la l. 77/2013, che riconosce come il raggiungimento dell’uguaglianza di genere rappresenti l’indispensabile tramite per prevenire la violenza contro le donne), ma si pone addirittura in contrasto con le già citate più recenti prescrizioni convenzionali, e, in particolare, con l’obbligo di adottare misure che mirino ad evitare la vittimizzazione secondaria, ossia il pregiudizio indiretto del reato, quale eventuale conseguenza dell’impatto della vittima con l’apparato giudiziario-processuale.

Ci si riferisce, in particolare, alle rilevanti modifiche che la normativa dedica alla procedura, in quanto l’opinabile strumento scelto dal legislatore per riconoscere prioritaria tutela alla vittime dei reati di violenza domestica e di genere (maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, pure nella forma aggravata, atti sessuali con minorenne, corruzione di minorenne, violenza sessuale di gruppo, atti persecutori, lesione personale, nonché le nuove figure di reato introdotte da questa legge, diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti - il cd. Revenge Porn,, e deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso) è quello della inclusione dei predetti reati nel novero di delitti di grave allarme sociale, solitamente collegati alla criminalità organizzata e al terrorismo, il codice prevede una disciplina di particolare rigore), per i quali è prescritta l’immediata comunicazione al pubblico ministero da parte della polizia giudiziaria della notizia di reato - anche in forma orale -.

L’indifferenziata celerità che la previsione normativa in oggetto estende quindi anche alle ipotesi delittuose di cui alle “categorie” della violenza domestica e di genere, è però inidonea al soddisfacimento dello scopo primario della normativa stessa che è quello di riconoscere tutela alla vittima, per la quale risulta, al contrario, maggiormente adeguata la trasmissione di una comunicazione completa, ossia non carente di quegli elementi utili alla valutazione da parte dell’organo inquirente delle situazioni di rischio.

Viene introdotta con il successivo articolo la rigida prescrizione di un termine (ordinatorio) brevissimo - 3 giorni dalla iscrizione della notizia di reato - entro il quale il pubblico ministero deve assumere informazioni dalla persona offesa, o da chiunque abbia presentato querela, denuncia o istanza - prorogabile solo a fronte di imprescindibili esigenze di tutela di minori di anni 18 o della riservatezza delle indagini, anche nell’interesse della persona offesa.

Anche tale disposizione tradisce lo scopo della normativa in esame, in quanto espone la donna al rischio della “vittimizzazione secondaria” e, dunque, al pregiudizio emotivo conseguente al dovere ripercorrere e nuovamente descrivere all’autorità giudiziaria le vessazioni subite, senza una congrua rielaborazione del proprio vissuto; o quale effetto dell’atteggiamento negante o minimizzante che ella potrebbe assumere, se (subito) escussa senza la giusta consapevolezza – pensiamo al caso in cui la denuncia provenga da soggetti terzi –, o per l’indisponibilità di adeguate condizioni di sicurezza – si pensi alla ipotesi, assai comune, in cui la donna non si sia ancora allontanata dal contesto abitativo-relazionale in cui si verificano le violenze -; aumentando il numero delle volte in cui la stessa dovrà essere sentita, con aggravio di sofferenza e rischio di contraddizione nella esposizione.

E, in ogni caso, nell’inutile, improduttivo e dannoso aumento del carico di lavoro delle Procure, tenute invero a fronteggiare quella che di fatto può considerarsi una “presunzione legale” di urgenza,anche in relazione a reati per i quali è utile, al contrario, una valutazione diversificata e ad hoc delle priorità.

L’aumento delle denunce, quale immediata conseguenza dell’entrata in vigore della legge – dato che peraltro conferma la rilevanza che la tempestività della risposta da parte dell’autorità giudiziaria assume nel processo di autodeterminazione della persona offesa -, ha comportato un vero e proprio “intasamento” delle Procure, a fronte del mancato potenziamento di risorse e personale, la cui contemporanea previsione sarebbe stata più che opportuna visto il forte impatto delle modifiche introdotte.

L’introduzione di ben quattro nuove figure di reato - violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa; delitto di costrizione o induzione al matrimonio; diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate; deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso; - sembra al contrario soddisfare la ratio della legge, sebbene non del tutto al riparo da falle e rilevanti criticità.

Per esempio sotto il profilo pratico la disposizione che introduce il reato di violazione delle misure cautelari pare non corrispondere alla ratio del complessivo impianto normativo, in quanto, alla luce del range di pena previsto, non consente alla polizia giudiziaria di attuare provvedimenti idonei a riconoscere immediata tutela alla vittima. In ogni caso la previsione della nuova figura di reato ha il pregio di evidenziare il rilievo conferito dal legislatore al disvalore della condotta di violazione e alla necessità di garantire maggiormente la vittima.

Assolutamente condivisibile, in quanto in linea con la opportunità di allargare il quadro trattammentale dell’autore dei reati, la previsione che condiziona la concessione della sospensione condizionale della pena, per i delitti di violenza domestica e di genere, alla partecipazione a specifici programmi di recupero; richiesta che dovrà essere oggetto di specifica istanza da parte dell’imputato, con la conseguenza che, ove mancante, non potrà mai essere concessa da parte del Giudice.

Aumenti di pena per i reati di maltrattamenti, atti persecutori (cd. Stalking), violenza sessuale, violenza sessuale di gruppo. L’intervento edittale sul reato di maltrattamenti è soluzione sostanziale assolutamente favorevole poiché in linea con la ratio della legge, che invero include il delitto in esame tra quelli che prevedono un termine di efficacia della misura cautelare personale più lunga. In relazione alla violenza sessuale viene inoltre esteso a 12 mesi il termine concesso alla persona offesa per sporgere querela. Nell’omicidio viene estesa l’applicazione delle circostanze aggravanti, facendovi rientrare finanche le relazioni personali.

Degno di nota il riconoscimento normativo introdotto dal Codice Rosso alla “violenza assistita” - la “condotta di chi costringa il minore, suo malgrado, a presenziare, quale mero testimone, alle manifestazioni di violenza, fisica o morale”, e a cui dà pure rilievo la Convenzione di Istanbul, riconoscendo che “i bambini sono vittime di violenza domestica anche in quanto testimoni di violenze nei confronti della famiglia” e prescrivendo ai Paesi contraenti l’adozione di misure legislative e di ogni tipo “necessarie per garantire che siano debitamente presi in considerazione (…) i diritti e i bisogni dei bambini testimoni di ogni forma di violenza” domestica. Confermando una prassi già in uso presso la maggior parte delle Procure - tra cui quella di Bologna – la normativa estende al minore di anni 18 la qualifica di persona offesa dal reato di maltrattamenti.

Pertanto, nonostante le difficoltà applicative e il fondato dubbio che lo scopo di tutela possa, in alcuni casi, risultare depotenziato proprio per la indifferenziata valutazione del rischio che la normativa introduce – divergenze che parrebbero avere trovato convincente superamento nei protocolli adottati dalle singole Procure - e la mancata trattazione strutturata del fenomeno -, il Codice Rosso rappresenta se non proprio una svolta, sicuramente un passo avanti nella percezione della necessità di connotare diversamente la trattazione giudiziaria della violenza sulle donne ed endo-familiare. Agendo invero sulle tempistiche dell’azione penale e delle indagini, e potenziando il novero degli strumenti legislativi di riferimento utili all’effettivo riconoscimento in favore della donna di una tutela si immediata, ma altresì in linea con il percorso di affrancamento dai contesti relazionali di violenza.” #stopviolenceagainstwomen #STOPviolenzacontroledonne